Museo della Valle

Per fermare nel tempo le testimonianze di un passato, raccogliendo ed analizzando tradizioni, usi e costumi della Val Cavargna, è sorto nel 1982, il “Museo della Valle”, fondato da Don Federico Scanziani, compianto parroco di Cavargna dal 1957 al 2004, dove gli oggetti raccolti con paziente opera di ricerca, sono stati collocati, ricostruendo il loro originario contesto ambientale:” Non una semplice raccolta di cose, ma come rivivere la propria storia, soprattutto attraverso il lavoro dell’uomo”.

Un museo di tipo etnografico voluto, non come una semplice raccolta di oggetti, da conservare ed esporre, ma per testimoniare le manifestazioni di una popolazione portatrice e custode delle tradizioni e della cultura storica locale.

Dopo un’introduzione storico-geografica della Val Cavargna, l’esposizione museale presenta i vari settori: il lavoro dei magnani, del contadino allevatore, della donna, del boscaiolo, il fenomeno del contrabbando, le testimonianze delle antiche attività minerarie e siderurgiche, della religiosità popolare e della devozione a San Lucio, patrono degli alpigiani e dei casari, presso l’oratorio montano a lui dedicato, il costume tradizionale.

I Magnani

Stagnini, calderai, ramai, magnani sono le diverse denominazioni di questi ambulanti spesso emigranti stagionali, che lavoravano il rame, riparando recipienti per uso domestico, rivestendone la superficie interna con un sottile strato di stagno, o rappezzando buchi, o livellando ammaccature.

In Val Cavargna l’attività del magnano era diffusissima, fino a pochi decenni fa nei paesi di S. Nazzaro, di Cavargna e della sua frazione Vegna.

Il fenomeno ormai decaduto ha lasciato tracce e ricordi notevoli, nonché un gergo particolare il rungin.

I magnani uscivano dalla valle e andavano girando per i paesi del Bergamasco, della Brianza e del Lodigiano, ma anche più oltre.

Il bagaglio di strumenti che portavano appresso era contenuto nella trida, una cassetta di legno, munita di coperchio e di una cinghia per poterla portare a spalla e comprendeva il martello per battere le lastre di rame, la mazzuola per togliere le ammaccature, le forbici per tagliare la lamiera, la ciodera, un attrezzo di ferro con buchi di diverso diametro, usato per confezionare i chiodi ricavati da pezzetti di rame, l’incudinella, piccola incudine d’acciaio fissata su un pezzo di legno, appoggiata per terra era tenuta tra le ginocchia, il polso, attrezzo di ferro, vagamente a forma di fungo, per ribattere i chiodi, la tenaglia, per mettere o togliere dal fuoco l’oggetto da riparare, il mantice, per ravvivare il fuoco necessario alle operazioni di saldatura e di stagnatura, oltre allo stagno, all’acido muriatico, all’ovatta e così via.

APPROFONDIMENTI

Il termine magnano, in passato era stato equiparato a quello di un fabbro nomade, che emigrava non solo per esercitare il mestiere di ambulante, ma anche per aprire bottega nelle città.
Successivamente col termine magnano si era inteso l’ambulante che riparava utensili da cucina.
Un’attività molto importante durata sino alla prima metà del ventesimo secolo, per tutto quel periodo durante il quale furono utilizzati gli oggetti di rame per la cottura dei cibi.
Quella dei magnani era una categoria i cui rappresentanti risultano spesso citati nei documenti degli archivi storici.

Già nel Quattrocento i magnani della Val Colla erano attivi anche a Milano, come testimoniato da Petrus de Borilis de Colla, figlio di Paolo, abitante in Colla stessa, che deve a Gio. Giacomo Serbelloni, abitante nella parrocchia di S. Babila a Milano, lire 28, soldi 13, denari 6 imperiali per tanto rame acquistato.
Nel 1536 accadde un fatto grave tra Togneto da Rondanario, oste a Chiasso, e Bernardino Bassi un birichino magnano di Colla.
Mentre due magnani di Premana, Giovanni Manzoni e Giuseppe Baschera de Rusconi, si accordano per una “societas in arte magnani in civitate Venetiarum”.
Nel 1569 viene affittata “per due anni al maestro Bartolomeo Spandri di Bindo una apoteca ab arte magnani, sita in Firenze, in Piazza S. Lorenzo, stimata da Ambrogio Peluchino de Ciresi e dal maestro Antonio Tenca, magnani in Firenze.

Il parroco di S. Pietro de Cola, durante la Visita Pastorale del vescovo Ninguarda, il 15 giugno 1591, dichiara “…..et perché delli uomini della mia parrocchia son fuori 150 a fare il magnano, che comunemente ritornano a Natale e a S. Pietro, nella qual festa sempre voglio che mi mostrino dove si son confessati e comunicati a Pasqua”.
Nel 1599 il diciassettenne Orazio Cattanei di Marcantonio, di Primaluna, promette ad Ambrogio Melesi di Francesco di Gero…….di lavorare come apprendista all’arte di ferraro, cioè magnano, nella loro bottega sita nella città di Firenze”.
Nei Libri bannitorum all’inizio del Seicento è segnalato ” il caso di un magnano, Lazzaro Camozio, proveniente dalla valle di Lugano, condannato alla forca, per aver menato via Margherita Bonacina, giovane da marito, di Civate…”
Dai Documenti dell’Archivio della Curia Vescovile di Lugano, nel 1670 risulta che “diversi abitanti della Val Colla si recano nella regione di Milano e anzi di tutta la Lombardia ad esercitare l’arte del ramaio”.

Dalla stessa fonte, il 3 giugno 1684 il Visitatore in Val Colla, per conto del Vescovo Ciceri, apprende che “gli abitanti della Val Colla, abitata da 780 persone, emigrano andando in diverse regioni per esercitare il lavoro di ramaio”.
In generale si osserva che, non a caso, l’attività del magnano “compare spesso nelle stesse aree in cui nei secoli precedenti si era praticata l’estrazione del ferro…… in varie zone dell’arco alpino, come (anche) in Val Colla e nella confinante Val Cavargna”.
Anche per i calderai della Val di Sole in Trentino, si rileva che “un generale incremento alla loro professione era derivata dall’esistenza in valle di alcune miniere, dalla lavorazione del ferro e dalla diffusa esistenza in zona di forni fusori”.

La lavorazione del ferro era stata nella storia dell’uomo una specializzazione “fatta di un lento accumularsi di esperienze e di graduali conquiste”, finalizzata ai bisogni più antichi dell’uomo, di oggetti decorativi, ma anche di armi e di arnesi per lavorare la terra, come la zappa, la vanga e l’aratro.
Dalla perizia per la lavorazione del ferro era così derivata “la pratica per la lavorazione del rame, un metallo più malleabile e meno impegnativo, con l’attività del ramaio, del magnano…….. un lavoro segnato dalla marginalità di artigiani che lasciavano la stanzialità per andare ambulanti per contrade, a riparare caldaie e paioli”.

Conferma del collegamento tra la lavorazione del ferro e l’attività dei magnani si ha anche dal termine “saràia” (serraglia, serratura), che i magnani in Val Colla usavano per indicare se stessi, rievocando il periodo in cui gli antenati dei magnani lavoravano il ferro.
“L’attività del magnano nella Val Cavargna era diffusissima, fino a pochi anni fa nei paesi di Cavargna e di San Nazzaro, ma soprattutto nella frazione di Vegna.
Il fenomeno ormai decaduto, ha lasciato tracce e ricordi notevoli nella popolazione, nonchè un gergo particolare: il rungin.
I magnani uscivano dalla valle e andavano girando per le grandi cascine e per i paesi del Bergamasco, della Brianza e del Lodigiano, ma anche più oltre.
Non era un lavoro difficile ed un ragazzo di dodici anni poteva già essere in grado di seguire gli uomini e rendersi utile dopo un apprendistato di tre o quattro mesi.
A volte i magnani andavano da soli, più spesso, però, si riunivano in gruppi di due o tre con qualche ragazzo che fungeva da garzoncello.

Il bagaglio di strumenti che si portavano appresso non era molto grosso e comprendeva: lo stagno (in barrette), l’acido muriatico, l’ovatta, il polso (attrezzo per controbattere), la mazzuola, la ciodera, le forbici, le tenaglie, il mantice, il martello, la piccola incudine.
Una volta giunti nel paese stabilito, i magnani si dividevano le zone e, lanciando il loro caratteristico grido, aspettavano che la gente portasse loro le pentole da stagnare e da riparare.
Non sempre la clientela era rappresentata da singole famiglie, a volte erano anche grosse comunità come ospedali, collegi, caserme.
Di notte si rifugiavano in fienili o pagliai, chiedendo l’ospitalità in cambio del lavoro fatto, raramente il pagamento avveniva in forma mista, di solito era in denaro.
Il guadagno era senz’altro buono…
La lontananza da casa non era mai molto lunga, di solito si trattenevano lontani dalla valle dagli otto ai quindici giorni.
Alcuni però affittavano una stanza nella zona di lavoro ed allora la lontananza si protraeva anche per due o tre mesi…
La saltuarietà, l’instabilità e la precarietà della loro occupazione, nonché l’assenza di una dimora fissa, ne facevano una classe di emarginati nelle zone dove andavano, ma non nella loro valle.
Qui i magnani erano considerati con rispetto e si sentivano importanti, sia perché il loro guadagno era maggiore di quello di qualsiasi altro lavoratore della valle, sia perché il saper manipolare un metallo, ossia un materiale fra i più duri e difficili da plasmare, creava attorno a loro un alone di particolare rispetto.

Comunque, al di fuori della valle erano degli emarginati che dovevano inventare di giorno in giorno il modo di sopravvivere e che si incontravano con altri nelle stesse situazioni: gli arrotini, i seggiolai, gli ombrellai. Tutta gente che doveva difendersi da un mondo spesso ostile nei loro riguardi che, a torto o a ragione, frequentemente li considerava dei potenziali truffatori ed ecco che per difendersi usavano uno strumento di comunicazione proprio: il gergo”.
Lo studio che segue, di Rolando Fasana, sui magnani della Val Cavargna è un nuovo contributo per la migliore conoscenza delle emigrazioni, non solo stagionali, in un momento di approfondimento, avviato da qualche decennio, sulle migrazioni dalle montagne dell’arco alpino.
Un dibattito che, affiancando agli studi degli storici, svolti negli archivi dei luoghi di arrivo degli emigranti, nelle città, nelle pianure, gli studi degli antropologi nei paesi d’origine, presso gli archivi locali, tende a scoprire non solo un emigrante improvvisato ed errabondo, ma anche dotato di una componente imprenditoriale.

Tecniche di lavorazione del magnano ed i suoi attrezzi (secondo la tradizione della Val Cavargna, referenti Ambrogio Butti, chiamato Celestino, classe 1911 e Paolo Butti, classe 1925 di Mondrago, Cavargna)

La trida, cassetta di legno, munita di un coperchio e di una cinghia per poterla portare a spalla, usata dal magnano per trasportare i ferri del mestiere, necessari a riparare pentole, tegami, casseruole, paioli e altri utensili da cucina.

Il martello (tondo e piano di ferro) la parte rotonda per battere le lastre di rame, conferendo con martellature un aspetto bugnato, una decorazione.
Altri martelli, di tipo piano, venivano usati per fare i chiodi di rame, per fissare le “pezze” e riparare i buchi delle pentole, o per battere a lungo il rame per poterlo lavorare meglio e renderlo più resistente.

La mazzuola (piccola di legno) per togliere le ammaccature delle pentole, perché il legno, più morbido del ferro, non segna il rame.

Le forbici, per tagliare la lamiera di rame, non eccessivamente dura, acquistata in lastre, e ricavarne le “pezze”.

La ciodera, attrezzo di ferro con buchi di diverso diametro, usato per confezionare e per calibrare i chiodi, ricavati da pezzetti di rame. In epoca più recente venivano usati i chiodi ribattini, pure di rame, ma prodotti industrialmente.

L’incudinella (o pal), piccola incudine d’acciaio, della lunghezza di circa 20 cm., fissata su un pezzo di tronco di 6 – 8 cm. di diametro e di 50 cm. di altezza, con due estremità una a forma tonda e l’altra piana e con alcuni fori sulla superficie superiore, appoggiato per terra e tenuto tra le ginocchia, per riparare pentole e tegami.

Il polso, attrezzo di ferro, vagamente a forma di fungo, di ridotte dimensioni, per poterlo introdurre all’interno di piccoli recipienti. Poteva essere infilato in uno dei fori dell’incudinella, per ribattere i chiodi o, assestando colpi di martello all’esterno e mantenendo dall’interno del recipiente una certa pressione del “polso”, levigarne le ammaccature

La tenaglia, di diverse lunghezze e forme, per mettere o togliere dal fuoco le pentole da saldare o stagnare.

Il saldatore, un pezzo di rame a forma di martello, da riscaldare sulla brace, per saldare con lo stagno piccoli buchi delle pentole, dove non era necessario mettere delle pezze con i chiodi.

La saldatura, eseguita durante il lavoro ambulante, doveva avvenire dopo un’accurata pulizia delle parti, con il saldatore ben caldo per sciogliere alcune gocce di stagno e con piccole dosi di piombo sulla fessura da saldare.
La pulizia si eseguiva con acido muriatico spento, detto anche “cotto”, preparato aggiungendo all’acido puro, detto anche “crudo”, sale ammonico in polvere e pezzetti di zinco, l’operazione, che sviluppava vapori di odore sgradevole e rendeva l’acido innocuo ed inodoro, poteva durare da un minimo di un’ora ad una notte.
 La stagnatura, operazione impegnativa e delicata eseguita dal magnano, durante il lavoro ambulante, e necessaria per le vecchie pentole da cucina, con lo stagno consumato dalle ammaccature e dall’uso, per evitare la formazione del verderame, sostanza nociva.
La stagnatura si svolgeva secondo le seguenti fasi:

  • riscaldamento della parte interna della pentola sul fuoco, per togliere la vecchia stagnatura, sino a raggiungere il color rosso rame.
  • sgrassaggio dell’interno, con acido muriatico puro, lasciato agire per qualche minuto, con produzione di un fumo intenso (a volte veniva eseguito un secondo passaggio con acido solforico, facendo molta attenzione per non rovinare il rame), poi asciugato con stoppa od ovatta.
  • pulizia dell’interno con acqua e sabbia molto fine, poi asciugato e strofinato con stoppa od ovatta, imbevuta di acido muriatico spento o “cotto”.
  • riscaldando l’interno della pentola si scioglieva lo stagno puro, facendo in modo di ricoprire tutta la superficie dell’interno, dopo un ripasso con acido muriatico spento o “cotto”, una seconda stagnatura, ultimando con una lucidatura con dell’ovatta pulita.

Non tutti i recipienti in rame potevano essere stagnati, come ad esempio i paioli per la polenta, perché durante la cottura del cibo troppo solido, la stagnatura poteva staccarsi.

Il mantice, per ravvivare il fuoco (alimentato con legna o con carbon di legna), acceso nel luogo (pubblica piazza, cortile, portico) dove si sistemava il magnano con i suoi attrezzi, assistito da un giovane garzone o “magnanino” che lo aiutava, imparando il mestiere.

Il costume tradizionale in Val Cavargna

L’abito femminile sul finire dell’Ottocento, a S. Bartolomeo, si presentava secondo il seguente ordine: sulla pelle la camicia di cotone, o di canapa bianca grezza, che si portava di giorno e di notte, con manica a tre quarti, scollo quadrato, rifinito con pizzo all’uncinetto di cotone bianco.

In genere le donne possedevano due vestiti: uno per tutti i giorni e uno per la festa. Quello per tutti i giorni era composto da una gonna arricciata in vita, lunga fino alla caviglia, a volte sostenuta da bretelle incrociate sulla schiena e pettorina davanti ed era indossata sulla camicia descritta prima. La gonna, di canapa o di lana grezza dai colori scuri era rifinita per 20 o 30 centimetri da una stoffa di colore contrastante, con motivi floreali o rappresentanti dei frutti, definita gonna orlata.

Questo tipo di confezione consentiva di poter cambiare solo l’orlo consumato o di allungarla per le giovani in crescita. Il vestito era poi completato da un grembiule, arricciato, di cotone a colori scuri, con una fettuccia in vita per legarlo sul davanti, senza tasche.

Il vestito della festa verso la fine dell’Ottocento comprendeva una gonna arricciata in vita, di colore nero, che per andare in chiesa veniva completata con una giacchetta, detta corsetto, abbottonata davanti con maniche lunghe e spalle arricciate. Dopo alcune modifiche, la gonna viene attaccata al corsetto, divenendo un abito. Sulle spalle un piccolo scialle di cotone nero lavorato all’uncinetto, con motivo finale di colore contrastante, rosso, rosa, viola, azzurro, con alte frange ancora di colore nero. D’inverno lo scialle poteva essere anche di lana. In testa le donne portavano il foulard, di tipo diverso secondo l’impiego, per la festa o per il lavoro nei campi. Si portavano calze di lana di pecora, lunghe fin sopra il ginocchio, di colore nero con la soletta di lana bianca attaccata alla calza, per permettere un facile ricambio.

Ai piedi zoccoli di legno: il corpo di legno di tiglio o acero, con due alette di cuoio legate con fettuccia nera o rossa, quelli d’inverno erano costellati di punte di ferro, per non scivolare sulla neve e sul ghiaccio.

L’abito maschile era molto più semplice, senza molti cambiamenti nel tempo. Anche gli uomini possedevano due abiti: uno da lavoro e uno della festa. Sulla pelle la camicia bianca, di canapa, successivamente di cotone, manica a tre quarti, scollo quadrato. Il gilet era indossato sempre, anche durante il lavoro nei campi: era di lana molto grezza, il dorso di canapa. I pantaloni erano lunghi fino alla caviglia per la festa, più corti e legati al ginocchio per il lavoro. La giacca era corta, sempre di lana grezza, tipo panno, completata per la festa da una camicia bianca con il collo appena accennato e chiusa da un nastrino, tipo cravatta.

Durante il lavoro nei campi gli uomini portavano al collo un fazzoletto per il sudore ed in testa cappelli di paglia.

Religiosità popolare

Il “Museo della Valle” non raccoglie solo gli attrezzi e le testimonianze del contadino allevatore, del magnano, degli addetti ai lavori tradizionali della Val Cavargna, ma espone anche i reperti e le testimonianze della religiosità popolare, che raccoglie arredi liturgici e oggetti sacri, provenienti dalla vecchia chiesa parrocchiale di San Lorenzo M. di Cavargna e una serie di posters fotografici dei dipinti murali ad affresco recentemente restaurati dell’oratorio montano di San Lucio, posto a 1500 mt. s.l.m.

APPROFONDIMENTI

Nel settore Religiosità popolare sono esposti alcuni significativi arredi, paramenti e oggetti liturgici, provenienti dall’antica chiesa parrocchiale di S. Lorenzo M. di Cavargna (Diocesi di Milano), dalla chiesa sussidiaria di Vegna, dedicata a Sant’Antonio da Padova e dall’oratorio montano di San Lucio e recentemente restaurati, da Paola Villa.
 Gruppo di statue lignee del XVIII secolo, già facenti parte dell’altare maggiore della parrocchiale di San Lorenzo M. a Cavargna. Sculture di legno di tiglio con finiture a colore su preparazione a gesso e colla, parzialmente dorate a foglia.
Madonna, S. Pietro, S. Antonio da Padova, S. Paolo, Angelo Reggicandela.

Sculture

San Lucio
Statua lignea, del XVIII secolo, già presso l’oratorio montano di San Lucio. Dimensioni: altezza cm. 120.
La statua scolpita in un unico tronco, tranne la mano sinistra ed il piede sinistro, lavorata a tutto tondo è dipinta su tutta la superficie.
Per lo stile si ritiene riproposizione di altra statua più antica, del XV secolo.

San Rocco
Statua lignea con cane, del XVIII secolo, già presso l’oratorio montano di San Lucio, altezza cm. 133.
La statua rappresenta il Santo con gli attributi della sua iconografia: il cane ai piedi con il pane in bocca, la tipica mantella da viandante, il cosiddetto sanrocchino, una conchiglia a tracolla come tazza per l’acqua, il bastone e il cappello da pellegrino, la piaga sulla gamba destra.

Oggetti liturgici

Ostensorio architettonico
Secolo XVIII. Dimensioni: altezza cm.20, diametro cm. 12. Della tipologia del rito ambrosiano, diverso dall’ostensorio raggiato tipico del rito romano.
E’ un contenitore costituito da una teca trasparente cilindrica in vetro, racchiusa con una montatura di tipo architettonico, a tempietto, con quattro semicolonnine con statuine che sorreggono una cupoletta sormontata dalla figura del cristo risorto e trionfante, per l’esposizione dell’ostia consacrata.

Paramenti sacri

Pianeta e stola ex donno dell’arte dei Formaggiai di Milano al loro patrono San Lucio (1757). Dimensioni: pianeta cm. 74 x 105, stola cm. 214 x 23.
In tessuto faille di seta, color avorio, ricamate a motivi floreali, nelle sfumature rosa, viola e azzurro, oltre a fregi, volute, decorazioni e bordure con fili metallici e laminati oro.
Sul retro della pianeta, nella parte inferiore, racchiusa da uno stemma a fili metallici, l’iscrizione “Ex dono Universitatis Salsamentariorum Mediolani” ricamata con filo di seta nero.

Triangolo per esposizione eucaristica
Tipo d’arredo liturgico in seta ricamata, per l’esposizione eucaristica in forma solenne nel rito ambrosiano, con l’ostensorio al centro in posizione elevata.
Il triangolo, confezionato nel XIX secolo, è in tessuto raso di seta color cremisi, ricamato con fili metallici oro lungo i tre lati, che raffigurano foglie d’acanto tondeggianti, da cui fuoriescono lateralmente piccoli motivi floreali, al centro una spiga.
Al centro del triangolo l’ostia con l’iscrizione IHS da cui partono ventidue raggi a fascio e sessantasei raggi singoli.

Per approfondire:
“Val Cavargna: la memoria delle tradizioni” a cura Associazione “Amici di Cavargna”, (2006).

San Lucio

E’ assai diffuso il culto di San Lucio, patrono dei casari e degli alpigiani, conosciuto fino al 1613 come San Luguzzone, Sant’Uguzzo, San Luzzon.
Della vita di San Lucio, trascorsa probabilmente tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo e terminata con il martirio, non si hanno notizie storiche, se non indirette e attraverso le testimonianze iconografiche.
Sulla base della tradizione così il Ferrari descrive San Lucio nel “Catalogus Sanctorum Italiae del 1613″: ” Essendo il pastore al servizio di un padrone avaro e dando il suo ai poveri, fu dal padrone cacciato.
Messosi al servizio di un altro avvenne che quest’ultimo vide rapidamente moltiplicarsi i suoi greggi e prodotti, mentre il primo andava in miseria. Questi spinto dall’invidia e dall’odio uccise il servo.”
San Lucio definito santo popolare, in quanto non proclamato ufficialmente santo, aveva ricevuto fama ed importanza anche dalla visita pastorale di San Carlo Borromeo nel 1582, fermatosi in preghiera all’oratorio montano per quasi una giornata.

Contatti

Tel. 0344 66456 
Tel. 0344. 63164 
e-mail:  museodellavalle.cavargna@gmail.com

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